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Distanze culturali: prossemica, non verbale e individualità nelle interazioni

Distanze culturali: prossemica, non verbale e individualità nelle interazioni

La traduzione è solo una questione di parole? Assolutamente no, è principalmente una questione di cultura: ogni lingua porta con sé un universo di significati, abitudini e convenzioni sociali che ne influenzano l'uso quotidiano. Per questo, comprendere e interpretare correttamente il linguaggio di un’altra persona non significa solo padroneggiare la grammatica e il lessico, ma anche decifrare il suo substrato culturale, fatto di costumi, gestualità e dinamiche sociali. Persino il suo background, le sue idiosincrasie… ciò che lo rende se stesso, un individuo non replicabile.  

Uno degli aspetti fondamentali della comunicazione umana, spesso dato per scontato, è la prossemica, ossia l’uso dello spazio nelle interazioni sociali. Questo concetto, insieme alla comunicazione non verbale, in senso lato, gioca un ruolo chiave nelle relazioni interpersonali e può determinare il successo o il fallimento di una conversazione, specialmente in contesti legati al business.

Partiamo da qui per parlare delle “distanze culturali” e della differenza d’interazione tra persone che provengono da contesti socio-economici ed etnici diversi. 

Prossemica e comunicazione non verbale

Iniziamo con le basi “antropologiche” della questione. Il concetto di prossemica è stato studiato per la prima volta dall’antropologo americano Edward T. Hall nel 1966, nel suo libro The Hidden Dimension. Hall ha identificato quattro principali zone di distanza interpersonale, che regolano le interazioni tra individui:

  • Zona intima (0 - 45 cm), riservata a relazioni molto strette, come partner, familiari o amici intimi;
  • Zona personale (45 - 120 cm), tipica delle interazioni tra amici o conoscenti;
  • Zona sociale (120 - 350 cm), usata nelle interazioni professionali o con persone poco familiari;
  • Zona pubblica (oltre 350 cm), impiegata in contesti di comunicazione pubblica, come conferenze o presentazioni.

Bisogna però sottolineare come l’applicazione di queste distanze vari enormemente tra culture diverse. Alcune popolazioni, come quelle dell’America Latina o dell’Europa mediterranea, privilegiano il contatto fisico e riducono la distanza interpersonale, mentre altre, come quelle nord americane o asiatiche, tendono a mantenere spazi più ampi tra gli interlocutori e ad evitare di toccarsi mentre si parla. Sempre Hall ha distinto tra culture di contatto e culture senza contatto: le prime, come quelle arabe, mediterranee e sudamericane, prediligono un’interazione fisica più ravvicinata e un tono di voce più alto, mentre le seconde, come quelle giapponesi o scandinave, preferiscono comunicare in modo più distaccato e riservato.

A questa diversità nella gestione dello spazio si aggiunge quella della comunicazione non verbale: tono di voce, espressioni facciali, gestualità e contatto visivo assumono significati differenti a seconda del contesto culturale. Un esempio? In Giappone il contatto visivo prolungato può essere considerato un segno di aggressività, mentre in molte culture occidentali è interpretato come un segnale di sincerità, empatia e attenzione a quanto l’interlocutore sta dicendo. 

Differenze culturali e incomprensioni nella comunicazione

Ora, è facile comprendere quanto queste differenze possano impattare nell’efficacia della comunicazione, soprattutto a livello di contatto tra aziende, interpretariato e traduzioni di business

Sempre per citare un “mostro sacro” della materia, il linguista e comunicatore inglese Richard Lewis ha ulteriormente sviluppato questa teoria con il Lewis Model, individuando tre categorie principali di “tipi” culturali:

  • Multi-attivo, caratterizzato da espressioni emotive intense, interruzioni frequenti e un alto livello di coinvolgimento (es. Brasile, Italia, Grecia)... provate solo a pensare quanto gli italiani siano famosi nel mondo per la spiccata gestualità!
  • Attivo-lineare, stile diretto, logico e sequenziale, con poca emotività espressa (es. Germania, USA, Nord Europa);
  • Reattivo, comunicazione basata sull’ascolto, con evitamento del conflitto e uso minimo del linguaggio del corpo (es. Cina, Giappone, Vietnam).

Queste differenze possono causare incomprensioni, anche in buonissima fede.

Facciamo qui tre esempi molto pratici di questo genere di dinamica. 

Pensate a una riunione tra professionisti giapponesi e americani: mentre i primi tenderanno a evitare il confronto diretto prediligendo un linguaggio diplomatico e dissimulato, i secondi preferiranno un approccio assertivo e schietto. Questo può portare a malintesi e a percezioni errate sulla professionalità e l'affidabilità dell’interlocutore.

Se si immagina, invece, un meeting di lavoro tra un team europeo e uno mediorientale, persino l’estetica potrebbe portare a una dispercezione dell’altro: il modo di vestire e ciò che è considerato adatto, opportuno o inopportuno - soprattutto riguardo l’abbigliamento femminile - va tenuto in considerazione per evitare di offendere l’altra cultura.

E persino la più piccola gestualità può generare malintesi e tensioni: in un incontro d’affari in Cina, mai porgere il proprio biglietto da visita con una sola mano, verrete considerati a dir poco maleducati! Nelle culture asiatiche, il gesto di porgere un oggetto a un altro soggetto va sempre eseguito con entrambe le mani, per dimostrare deferenza e rispetto… fosse anche il biglietto dell’autobus al controllore.

L’unicità dell’individuo nella comunicazione

Quindi, tutti gli italiani sono uguali? Tutti i giapponesi sono riservati e schivi? Tutti gli americani sono diretti e senza peli sulla lingua? C’è una connotazione culturale, indubbiamente, un “carattere” tipico di ogni popolo… ma sarebbe una semplificazione eccessiva dire che ogni individuo risponde perfettamente a un framework nazionale. 

Oltre alle differenze culturali, esiste una dimensione molto più sottile: quella dell’individuo. Ciascuno di noi custodisce un bagaglio di esperienze personali, educazione e valori che influenzano il modo in cui comunichiamo. Anche all’interno della stessa cultura, due persone possono avere stili comunicativi completamente diversi a seconda della propria storia familiare, formazione e personalità.

Questa varietà si riflette anche nel mondo del lavoro: in molte piccole e medie imprese, ad esempio, la cultura aziendale è fortemente influenzata dalla personalità dei suoi leader. Le convinzioni, i timori e le preferenze comunicative dei manager possono modellare l’intero ambiente lavorativo, rendendo la comunicazione più o meno fluida, più o meno inclusiva, diretta, aggressiva o altro.

Essere consapevoli di queste dinamiche è fondamentale per evitare fraintendimenti e costruire relazioni più efficaci. Comprendere la diversità culturale e individuale ci permette di essere più attenti, aperti e rispettosi nelle nostre interazioni quotidiane, sia nel lavoro che nella vita privata. Perché, in fondo, comunicare bene significa saper ascoltare, comprendere e adattarsi all’altro, in tutte le sue sfumature.

Andreza Pavani

Febbraio 27, 2025

Andreza Pavani

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